UNA CENA AL BUIO PER APRIRE GLI OCCHI (da Gente Veneta del 04.12.2010)

In un agriturismo del Veneziano quaranta persone sono state invitate a cenare in un ambiente totalmente privo di luce: movimenti incerti scoperte sensoriali e un nuovo approccio con la vista

foto agriturismo la barena con lagura veneziana davanti

La prima, immediata sensazione è il panico. Panico di fronte alla mano che ti accompagna dentro il buio mentre i piedi si trascinano con molta fatica e poca fiducia, inconsapevoli.

Il senso di smarrimento si impossessa delle poche certezze che si avevano, fino a toccare con le mani una sedia e barcollando sedercisi sopra. Poi le mani si allungano, alla ricerca di cose riconoscibili al tatto: le posate, il bicchiere, poi a sinistra il braccio morbido di una persona. Si presenta: «Lucia». Che sollievo, c’è qualcuno vicino nella stessa condizione di cecità.

I primi minuti sono interminabili. Un respiro profondo. Gli occhi tirano dolenti, le palpebre sbattono, alla ricerca della luce e nella speranza di distinguere qualche sagoma nel nero della stanza. I primi minuti sono interminabili, nel tentativo di adattarsi alla inconsueta situazione.

Così è cominciata l’originale esperienza di una cena al buio nell’agriturismo “La barena”, infilato nel mezzo della barena al largo di Caposile (Jesolo), al termine di un lungo lembo di terra circondato da acqua e – seppur avvolta dal buio totale – da una natura incontaminata. Una cena al buio nel vero senso del termine: si tratta di un evento ormai diffuso in tutta Italia da alcuni anni e che grazie all’associazione capitanata da Maurizio Mariotto “Gold.Vis” Onlus – acronimo per “guardare oltre la disabilità visiva” – ha raggiunto anche il veneziano. Maurizio e la sorella Paola, entrambi diventati ciechi a causa di una malattia congenita, sono venuti a conoscenza dell’agriturismo “La barena” e, constatata la possibilità di realizzarvi questo tipo di esperienza, hanno ottenuto dal proprietario del locale il permesso di allestirla, aiutati da altri amici.

Si arriva così a venerdì 19 novembre, un viaggio in macchina nella foschia che sta salendo, e l’arrivo in questo luogo che già si presta, per il suo isolamento dalla vita cittadina, ad accogliere la quarantina di partecipanti all’evento.

Ciechi per due ore. Un gazebo del tutto nero è stato allestito di fronte all’ingresso della stanza che ospiterà la cena: prima si apre un tendone, lo si richiude, poi si apre l’altro, in modo tale che sin dall’inizio la notte sia piena e nessun lampo di luce penetri nella stanza precedentemente oscurata.

Quelle flebili ombre più chiare che penetrano appena lì dove l’oscuramento non è stato totale vengono guardate con immenso sollievo nonostante servano a ben poco. Siamo tutti ciechi. Ciechi per due ore, il tempo di una cena, come coloro che passano tra i tavoli a servirci. Loro però lo sono ogni ora da tutta una vita.

Si alza la voce per compensare. Tra le prime reazioni delle persone in sala c’è quella di alzare la voce: la menomazione provvisoria infatti spinge a compensare in qualche modo il disorientamento di non poter sapere com’è il luogo in cui si è seduti, come si è disposti, cosa c’è attorno a sé. Si scoprirà più tardi che la tavolata è disposta a ferro di cavallo, e le persone che – nella confusione dei dialoghi a ugola spiegata – sembravano così distanti da noi, erano in realtà molto vicine.

Versarsi l’acqua, un gesto quotidiano e ormai banale, diventa un’impresa complicata, così come trovare, a tastoni, il cestino del pane. Arrivano le pietanze: due non vedenti si improvvisano cameriere per quella sera, e si dimostrano perfettamente all’altezza del ruolo. Dopo aver studiato precedentemente la disposizione della stanza e dei posti a sedere, si muovono tra i tavoli con un carrello carico di piatti e servono gli ospiti con una certa facilità, dimostrandosi in quest’occasione più spigliate di chi nella vita ha la fortuna di vedere. Il cibo diventa un mistero da scoprire. La deliziosa cena di pesce che viene servita perde buona parte del suo sapore, e ne acquista un altro desueto. Ha ben ragione chi dice che “l’occhio vuole la sua parte” e che spesso “si mangia con gli occhi”: mangiare senza vedere ciò che si mette in bocca significa superare innanzitutto la diffidenza, e poi fare molte ipotesi su quello che si sta degustando, se non lo si conosce da prima. La zucca in saor, ad esempio, è risultata un sapore nuovo e irriconoscibile, a differenza dei gamberetti con la polenta.

Mani e forchetta si aiutano per raccogliere il cibo dal piatto: le papille gustative, il tatto si acutizzano nell’atto di mangiare ma si viene privati di buona parte della soddisfazione di ammirare la composizione dei piatti.

Difficile risulta anche la conversazione, l’interazione sociale. A volte si cade in un mutismo fatto di pensieri che attraversano la testa rapidamente aiutati dal buio e da un senso di isolamento che si crea tutt’attorno a te, sapendo che nessuno può vederti. Il buio, poi, dopo che lo stomaco ha cominciato a riempirsi, concilia decisamente il sonno.

“Qui”, concetto vago…. Un tipico dialogo: «Sto cercando l’acqua, sai dov’è?», «Ce l’avevo io, l’ho messa qui», «…Sì, ma ‘qui’ è un po’ vago». Ebbene, bisogna anche ridimensionare e reinventare la propria relazione con gli altri e con gli oggetti; non si può più dare nulla per scontato, specialmente i gesti e le espressioni che prima necessitavano di essere visti.

Si avvicina finalmente il momento di ritornare a vedere, dapprima con l’arrivo del caffè accompagnato da alcune candele che permettano di riabituarsi alla luce. Il sollievo è incredibile, insieme al fastidioso. riabituarsi degli occhi che si risvegliano. L’illuminazione della stanza apre le porte allo stupore nel guardarci, e nello scoprire anche la fisionomia di chi era seduto al nostro fianco e che aveva solo la voce a caratterizzarlo.

In appena due ore tante riflessioni e tante emozioni hanno attraversato la stanza dell’agriturismo, e sicuramente lo scopo di Maurizio Mariotto è stato raggiunto: ognuno dei presenti è stato sensibilizzato alle difficoltà che un non vedente incontra ogni giorno nella propria quotidianità, e ha rivalorizzato l’importanza del senso della vista, anche negli aspetti più banali della vita.

In questa direzione cerca di muoversi l’associazione “GoldVis”, un gruppo di amici composto da non vedenti ma anche da persone normodotate che godono della stessa dignità giuridica. Per informazioni, curiosità e chiarimenti si può visitare il sito: www.goldvisonlus.it o in alternativa inviare una mail a goldvis.onlus@gmail.com. Laura Campaci.